giovedì 18 aprile 2013

Testo critico della mostra Stultifera Navis - a cura di Marco Napolitano


Sono tempi, i nostri, in cui gli spazi della cultura appaiono costretti a giustificare non solo la propria legittimità all’interno del quadro economico-sociale, bensì la propria stessa esistenza. A demandar tanto è un’ideologia carica d’alibi che, assumendo le fattezze del senso comune, a sua volta si serve capziosamente di quest’ultimo per farsi ordine e norma. L’alibi principe che tale ideologia avoca a sé, è uno stato di crisi semi-permanente in nome del quale si riformulano e si irrigidiscono le priorità sociali. “Con la cultura non si mangia”: la parola (falsa) del potere si fa mitologia, ed impregna di sé il sentire della comunità, plagiandone necessità e desideri. In che modo? Ogni processo di costruzione ideologica si basa sull’atto preliminare di tracciare dei confini, utili a disciplinare il molteplice. Al di qua di essi si mantiene ciò che è funzionale alla coerenza interna dell’assetto ideologico in fieri, rafforzandolo; diversamente, si marginalizza o si espelle al di là di siffatti perimetri ciò che diverge dalla norma e minaccia la tenuta strutturale dell’insieme: la differenza inassimilabile. L’ideologia si fonda perciò su un deliberato atto separativo, igienico, secondo il quale “non si elimina ciò che è impuro, ma è impuro ciò che si decide di eliminare” (così l’antropologo Francesco Remotti in Contro l’identità).
Il problema odierno che riguarda la ragion d’essere degli spazi della cultura non consiste tanto nella (presunta) scarsa redditività che l’ideologia imputa loro, quanto nel costituirsi come luoghi in cui si elabora autonomamente la differenza, rendendosi pertanto irriducibili per natura a qualsivoglia pensiero dominante. Motivo d’orgoglio per ogni comunità lungimirante, come fu quella Catania che fondò il suo Teatro Coppola nel 1821, questi spazi, quando non già eliminati, tendono oggi ad essere marginalizzati, abbandonati a una penuria di mezzi, lasciati alla deriva.
Maddalena Migliore, fotografa che si distingue per lo spiccato impegno civile e l’acuta sensibilità filosofica, si fa tessitrice di una trama mitopoietica che intreccia i fili della storia, dell’attualità e della finzione. Grazie a un sottile e colto gioco di sostituzione metaforica, le sue immagini trasformano il Teatro in uno spazio allegorico universale: quello della rappresentazione drammatica del possibile. Lungi dall’intendere la fotografia alla stregua di un mezzo ingenuo che restituisce la realtà senza mediazione, Maddalena ritrova in essa il potere dell’investimento simbolico: operando una vertigine ottica mozzafiato, trasforma le fattezze architettoniche del Teatro in quelle illusorie di una nave, abitata -come si vedrà- da una ciurma del tutto speciale. L’arte trasfigura la realtà, caricandola di senso ulteriore. E il senso, qui, è dato dalla scoperta allusione al tropo storico/letterario della Stultifera Navis tardomedievale, la Nave dei Folli, “strano battello ubriaco che fila lungo i fiumi della Renania e i canali fiamminghi” (Foucault). Das Narrenschiff (“la nave dei folli”, appunto) è la satira allegorico- didascalica composta dall’umanista tedesco Sebastian Brant e data alle stampe nel 1494, cui fa esplicito riferimento il titolo del primo capitolo della Storia della follia nell’età classica, scritta dal grande filosofo post-strutturalista francese Michel Foucault e pubblicata nel 1961.
In quelle pagine Foucault spiega come, nel delicato scorcio tra il Medioevo e l’Età Moderna, si consuma il mutamento della percezione socioculturale della follia. Se prima del Rinascimento i folli sono sì relegati ai margini della società dei savî (ma non da essa esclusi, in quanto manifestazione fisica della bontà e della collera di Dio), successivamente si diffonde il costume di affidarli a mercanti o battellieri, perché li imbarcassero a bordo delle proprie navi e li scaricassero nei porti di municipalità lontane.
Ben prima che, a partire dal Seicento, la comprensione medica del mondo sottraesse ogni significato morale alla follia e la segregasse in manicomi (di fatto trasformando lo status del folle da stolto a corrigendo), il folle a bordo della Stultifera Navis diventa prigioniero della sua stessa condizione, quella del passaggio.
Così Foucault: “Perché verso il Quattrocento si vede d’un tratto sorgere la sagoma della Stultifera Navis? Essa simbolizza tutta un’inquietudine, apparsa improvvisamente all’orizzonte della cultura europea verso la fine del Medioevo. La follia e il folle diventano personaggi importanti nella loro ambiguità: minaccia di derisione, vertiginosa irragionevolezza del mondo, e meschino ridicolo degli uomini”. Messa di fronte alla follia, la Ragione scopre le debolezze della propria presunzione. Come scrive la stessa Maddalena nell’introduzione alla parte testuale del suo progetto, la follia è lo “specchio deformante che riflette le nostre manie, le nostre fobie, i nostri alibi, disarmandoli”. La Stultifera Navis appare quindi come uno dei mezzi di cui la Ragione moderna si è servita per costruirsi ideologicamente. L’autorappresentazione della sua purezza passa attraverso quel “deliberato atto separativo, igienico” che è consistito nel lasciar letteralmente andare alla deriva la propria alterità assoluta: la follia.
Tentativo affatto ingenuo e fuorviante: “la follia è una delle forme della ragione: e d’altra parte dove situarla se non nella ragione stessa, come una delle sue forme e forse una delle sue risorse?” (Foucault). Come ammutinati contro il loro battelliere, ultimo membro di quella società che li ha esclusi, una volta fuoriusciti dal loro stato di prigionia sospesa, questi demoni folli passano all’azione, si impossessano del vascello e assumono le sembianze di pirati volitivi, pronti a urlare, beffardi, le loro “sragioni”. Come libido freudiana lungamente repressa, come manifestazione improvvisa di un esprit de finesse che si libera dal giogo di fredde necessità razionali, essi tornano. Sono il ritorno del rimosso. Tableaux vivants neobarocchi che Maddalena ritrae come figure che si staccano da un’oscurità caravaggesca (forse metafora contrastiva del chiaro-e-distinto che caratterizza cartesianamente il fondamento della ragione analitica); ad essa rivolgono le spalle e indirizzano il proprio sguardo conturbante dritto dentro l’obiettivo, verso quello spazio della Ragione che ciascuno di noi crede di abitare, e interrogando al contempo, come nella tradizione del fool shakespeariano, le nostre pretese di verità. Spicca, tra tutti i personaggi, lo sguardo fragile e severo di un’infanzia spezzata: è Cassandra, bambina-capitano di questo vascello di reietti, che ci ammonisce di ricordare, come fece il Candido di Voltaire in implicita polemica con gli esiti più autoassolutori del Razionalismo leibniziano, che, no, non viviamo nel migliore dei mondi possibili; e che, altresì, occorre attivamente “prendersi cura del proprio giardino”, per migliorarlo.
A vestire i panni di queste “teste pazze” sono, infatti, artisti, attori, musicisti, lavoratori dello spettacolo, attivisti legati alla scena dei teatri occupati, come il Teatro Coppola di Catania (tra le cui fila milita la stessa Maddalena) che, con il loro lavoro e la loro progettualità, hanno resistito, ristrutturato e restituito alla cittadinanza un prezioso spazio della cultura e della memoria che rischiava di perdersi. Ciò è stato reso possibile attraverso l’esercizio della propria forza di differenza irriducibile rispetto a un sistema miope e ingeneroso verso se stesso e la sua storia, sabotandone, anzitutto attraverso la logica “sovversiva” del volontariato, le stesse logiche speculative, per offrirsi come testimonianza di nuovi modelli di socialità, rifondando nuove mitologie comunitarie, dischiudendo nuovi e ben più inclusivi orizzonti di senso.

Marco Napolitano

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