Sono
tempi, i nostri, in cui gli spazi della cultura appaiono costretti a
giustificare non solo la propria legittimità all’interno del quadro
economico-sociale, bensì la propria stessa esistenza. A demandar tanto è un’ideologia
carica d’alibi che, assumendo le fattezze del senso comune, a sua volta si
serve capziosamente di quest’ultimo per farsi ordine e norma. L’alibi principe
che tale ideologia avoca a sé, è uno stato di crisi semi-permanente in nome del
quale si riformulano e si irrigidiscono le priorità sociali. “Con la cultura
non si mangia”: la parola (falsa) del potere si fa mitologia, ed impregna di sé
il sentire della comunità, plagiandone necessità e desideri. In che modo? Ogni
processo di costruzione ideologica si basa sull’atto preliminare di tracciare
dei confini, utili a disciplinare il molteplice. Al di qua di essi si mantiene
ciò che è funzionale alla coerenza interna dell’assetto ideologico in fieri,
rafforzandolo; diversamente, si marginalizza o si espelle al di là di siffatti
perimetri ciò che diverge dalla norma e minaccia la tenuta strutturale dell’insieme:
la differenza inassimilabile. L’ideologia si fonda perciò su un deliberato atto
separativo, igienico, secondo il quale “non si elimina ciò che è impuro, ma è
impuro ciò che si decide di eliminare” (così l’antropologo Francesco Remotti in
Contro l’identità).
Il
problema odierno che riguarda la ragion d’essere degli spazi della cultura non
consiste tanto nella (presunta) scarsa redditività che l’ideologia imputa loro,
quanto nel costituirsi come luoghi in cui si elabora autonomamente la
differenza, rendendosi pertanto irriducibili per natura a qualsivoglia pensiero
dominante. Motivo d’orgoglio per ogni comunità lungimirante, come fu quella
Catania che fondò il suo Teatro Coppola nel 1821, questi spazi, quando non già
eliminati, tendono oggi ad essere marginalizzati, abbandonati a una penuria di
mezzi, lasciati alla deriva.
Maddalena
Migliore, fotografa che si distingue per lo spiccato impegno civile e l’acuta
sensibilità filosofica, si fa tessitrice di una trama mitopoietica che
intreccia i fili della storia, dell’attualità e della finzione. Grazie a un
sottile e colto gioco di sostituzione metaforica, le sue immagini trasformano
il Teatro in uno spazio allegorico universale: quello della rappresentazione
drammatica del possibile. Lungi dall’intendere la fotografia alla stregua di un
mezzo ingenuo che restituisce la realtà senza mediazione, Maddalena ritrova in
essa il potere dell’investimento simbolico: operando una vertigine ottica
mozzafiato, trasforma le fattezze architettoniche del Teatro in quelle illusorie
di una nave, abitata -come si vedrà- da una ciurma del tutto speciale. L’arte
trasfigura la realtà, caricandola di senso ulteriore. E il senso, qui, è dato
dalla scoperta allusione al tropo storico/letterario della Stultifera Navis
tardomedievale, la Nave dei Folli, “strano battello ubriaco che fila lungo i
fiumi della Renania e i canali fiamminghi” (Foucault). Das Narrenschiff (“la
nave dei folli”, appunto) è la satira allegorico- didascalica composta dall’umanista
tedesco Sebastian Brant e data alle stampe nel 1494, cui fa esplicito
riferimento il titolo del primo capitolo della Storia della follia nell’età
classica, scritta dal grande filosofo post-strutturalista francese Michel
Foucault e pubblicata nel 1961.
In
quelle pagine Foucault spiega come, nel delicato scorcio tra il Medioevo e l’Età
Moderna, si consuma il mutamento della percezione socioculturale della follia.
Se prima del Rinascimento i folli sono sì relegati ai margini della società dei
savî (ma non da essa esclusi, in quanto manifestazione fisica della bontà e
della collera di Dio), successivamente si diffonde il costume di affidarli a
mercanti o battellieri, perché li imbarcassero a bordo delle proprie navi e li
scaricassero nei porti di municipalità lontane.
Ben
prima che, a partire dal Seicento, la comprensione medica del mondo sottraesse
ogni significato morale alla follia e la segregasse in manicomi (di fatto
trasformando lo status del folle da stolto a corrigendo), il folle a bordo
della Stultifera Navis diventa prigioniero della sua stessa condizione, quella
del passaggio.
Così
Foucault: “Perché verso il Quattrocento si vede d’un tratto sorgere la sagoma
della Stultifera Navis? Essa simbolizza tutta un’inquietudine, apparsa
improvvisamente all’orizzonte della cultura europea verso la fine del Medioevo.
La follia e il folle diventano personaggi importanti nella loro ambiguità:
minaccia di derisione, vertiginosa irragionevolezza del mondo, e meschino ridicolo
degli uomini”. Messa di fronte alla follia, la Ragione scopre le debolezze
della propria presunzione. Come scrive la stessa Maddalena nell’introduzione
alla parte testuale del suo progetto, la follia è lo “specchio deformante che
riflette le nostre manie, le nostre fobie, i nostri alibi, disarmandoli”. La
Stultifera Navis appare quindi come uno dei mezzi di cui la Ragione moderna si è
servita per costruirsi ideologicamente. L’autorappresentazione della sua
purezza passa attraverso quel “deliberato atto separativo, igienico” che è
consistito nel lasciar letteralmente andare alla deriva la propria alterità
assoluta: la follia.
Tentativo
affatto ingenuo e fuorviante: “la follia è una delle forme della ragione: e d’altra
parte dove situarla se non nella ragione stessa, come una delle sue forme e
forse una delle sue risorse?” (Foucault). Come ammutinati contro il loro
battelliere, ultimo membro di quella società che li ha esclusi, una volta
fuoriusciti dal loro stato di prigionia sospesa, questi demoni folli passano
all’azione, si impossessano del vascello e assumono le sembianze di pirati
volitivi, pronti a urlare, beffardi, le loro “sragioni”. Come libido freudiana
lungamente repressa, come manifestazione improvvisa di un esprit de finesse che
si libera dal giogo di fredde necessità razionali, essi tornano. Sono il
ritorno del rimosso. Tableaux vivants neobarocchi che Maddalena ritrae come
figure che si staccano da un’oscurità caravaggesca (forse metafora contrastiva
del chiaro-e-distinto che caratterizza cartesianamente il fondamento della
ragione analitica); ad essa rivolgono le spalle e indirizzano il proprio
sguardo conturbante dritto dentro l’obiettivo, verso quello spazio della
Ragione che ciascuno di noi crede di abitare, e interrogando al contempo, come
nella tradizione del fool shakespeariano, le nostre pretese di verità. Spicca,
tra tutti i personaggi, lo sguardo fragile e severo di un’infanzia spezzata: è
Cassandra, bambina-capitano di questo vascello di reietti, che ci ammonisce di
ricordare, come fece il Candido di Voltaire in implicita polemica con gli esiti
più autoassolutori del Razionalismo leibniziano, che, no, non viviamo nel
migliore dei mondi possibili; e che, altresì, occorre attivamente “prendersi
cura del proprio giardino”, per migliorarlo.
A
vestire i panni di queste “teste pazze” sono, infatti, artisti, attori, musicisti, lavoratori dello
spettacolo, attivisti legati alla scena dei teatri occupati, come il Teatro Coppola di Catania (tra le cui fila
milita la stessa Maddalena) che, con il loro lavoro e la loro progettualità,
hanno resistito, ristrutturato e restituito alla cittadinanza un prezioso
spazio della cultura e della memoria che rischiava di perdersi. Ciò è stato
reso possibile attraverso l’esercizio della propria forza di differenza
irriducibile rispetto a un sistema miope e ingeneroso verso se stesso e la sua
storia, sabotandone, anzitutto attraverso la logica “sovversiva” del volontariato,
le stesse logiche speculative, per offrirsi come testimonianza di nuovi modelli
di socialità, rifondando nuove mitologie comunitarie, dischiudendo nuovi e ben
più inclusivi orizzonti di senso.
Marco
Napolitano
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